giovedì 29 aprile 2010

Lo chiamavano il travirgolette Fantastic Mr. Fox

Sala praticamente vuota. Un grassone ed io.
Giovedì pomeriggio, ma comunque appare chiaro come di Fantastic Mr. Fox il pubblico non sappia che farsene. Scomparso dopo una settimana dalla stragrandissima maggioranza delle sale della penisola, l'ennesimo film d'animazione non certo blasonato bistrattato puntualmente al botteghino: ma la colpa non è necessariamente di Wes Anderson, il regista dei Tenenbaum e de Il treno per il Darjeeling, quanto piuttosto della spocchiosa nomea infantile che il cinema d'animazione si porta dietro dagli albori, appiccicata purtroppo anche a produzioni più raffinate come Fantastic Mr. Fox. E in questo inossidabile marchio a guadagnarci è soltanto la spettacolarizzazione del 3D (tipo del recente Dragon Trainer di Dreamworks), feature quasi sempre incollata all'ultimo minuto, figurarsi l'ormai vetusta stop-motion, così grezza, così pre-cinematografica. Fotografare immagini statiche e poi metterle in sequenza a formare un segmento d'animazione (roba da una giornata di lavoro per 30 secondi di film) determina infine una tecnica metodica, paziente, logorante, ma anche infinitamente curata, precisa; e Wes Anderson approfitta dell'opportunità offertagli per giocare sapientemente con la regia, producendo affascinanti movimenti di camera, suggestive inquadrature e simpatici rimandi tra un fotogramma e l'altro. Lo può fare...


La storia deriva da un romanzetto di Roald Dahl che funge sopratutto al regista e sceneggiatore americano per sfoderare un umorismo totalmente british, già contenuto nella favola, ma corroborato nella pellicola da squisite soluzioni grafiche, a cui la stop motion fornisce ulteriori motivi per suscitare ilarità, secondo un contenzioso tra staticità e dinamismo che diventa cifra stilistica di prim'ordine. Graficamente Fantastic Mr. Fox è il trionfo di un colorito autunnale, totalmente immerso nella campagna inglese di un Babe, di un Animal Farm; mele vermigne, foglie spossate, alberi che si genuflettono.
Caratteristico, ridente, ameno? Certo. Banale, semplicistico, futile? Nossignore. Anche se in questo amore per il dettaglio, per i minuscoli movimenti del pelo, degli arti, dell'ambiente, si evidenzia un'agghiacciante inespressività nei primi piani che addirittura rimanda ai molti brividi percorsi dalla visione delle robotiche facce di Spirit Within, ormai più di dieci anni fa. La gag degli occhi a spirale per intendere una momentanea assenza, un essere tra le nuvole, viene più volte ripresa con vari personaggi (Kylie, l'opossum, Fox, ecc...), simpatica nel suo essere, ma certamente infelice nella resa in stop motion.
Il tocco campagnolo, agreste, "selvatico", viene anche da una eccelsa colonna sonora che tra temi country, ballate romantiche, Beach Boys, filastrocche (in memoria del vecchio Roald), Rolling Stones, vibrare di corde del miglior western morriconiano (le rese dei conti Anderson le immagina proprio come ai tempi dei cow boy). Una varietà impressionante, una selezione sonora che non sbaglia un colpo...pardon una nota, una eccellenza raramente eguagliata specialmente perchè ci troviamo di fronte a una sceneggiatura piuttosto a senso unico.
Roald Dahl chiedeva giustamente una favola che sapesse intersecare diversi temi in una avventura eccezzionale fatta di rivalsa, coabitazione, unione, abnegazione: più o meno Anderson vorrebbe sviluppare tutti questi impliciti spunti a dovere nella pellicola, ma i dialoghi rimangono piatti, scontati, privi di sottotrame, non sviluppati a dovere.
Una volpe ladra di pollame (e sidro) si sposa e decide di mettere la testa a posto dedicandosi al mestiere di giornalista: ma un difficoltoso trasloco dal sottosuolo ad un quasi sempreverde sulla collina gli pone di fronte tre succosi bersagli, le fattorie di Boggis, Bunce e Bean, una sfida da leccarsi i baffi per un ladro professionista. La cosa diventa però troppo grande e i tre fattori non vogliono fargliela passare liscia distruggendo il suo albero-casa e scavando nel sottosuolo per stanare Fox e la sua famiglia. L'asciuttezza della trama (complicata però da molti personaggi che irrompono sulla scena) non gode di un'adeguato sviluppo di tutti i temi posti sul tavolo, come osservato poc'anzi. Ma la conclusione in sè amara ("brindiamo alla nostra...sopravvivenza") e sottilmente ironica (la beffa sarà di generose proporzioni) risolleva debolmente la trama che di certo non necessitava di un secco finale a sciogliere molteplici tensioni precedenti.
Volendo tirare le conclusioni, Fantastic Mr. Fox è una pellicola destinata a essere coccolata da una minoranza, che seppure ne riconosce i difetti, si dichiara pronta ad apprezzarne lo sforzo, il metodico e totale impegno richiesto da un'animazione in stop motion, mezzo ottimo per controllare minuziosamente la produzione, ma fonte infinita di problematiche metodiche, che il regista dimostra di sapere ben fronteggiare convogliandole all'interno di un umorismo dannatamente pervasivo. Di stampo britannico, come piace tanto...

martedì 27 aprile 2010

Dal Garda all'Iseo: cronache bresciane

Ci sono solo morti in "Piazza della Vittoria". Un monumento ai caduti, ai molti patrioti. Nella giornata della riscossa, dell'orgoglio nazionale, dell'azione patriottica, Salò, oggi località turistica sulle rive del Garda, riscopre il proprio cordoglio. Il 25 Aprile nelle strade del centro nevralgico della Repubblica Sociale Italiana, lo stato fantoccio messo in piedi da Hitler nel Settembre 1943 e consegnato alle squadracce mussoliniane, tragico epilogo di vent'anni di dittatura. Nessun barlume di festeggiamento, nessun vivido entusiasmo, ma solo i volti contriti di chi vuole solo dimenticare il tenebroso passato e guardare al futuro. Persino il monumento vecchio Zanardelli, statista del primo '900 originario di quelle parti, appare stanco, emaciato, irrigidito nel suo lungo tabarro: alza a malapena gli occhi, vuole scrutare il nuovo lungolago che la città ha intitolato a Falcone e Borsellino, consegnando il loro tragico ricordo alle migliaia di turisti che affollano ogni primavera le sponde del lago di Garda. Tedeschi perlopiù, magari si erano trovati bene nel soggiorno di cinquanta e passa anni fa: la battutaccia di qualcuno.


La tangenziale inaugurata da poco introduce di prepotenza nel cuore della Val Sabbia, amena località attraversata dal fiume Chiese e dalla congestionata strada provinciale IV: la nuova strada la solca in un batter d'occhio, riducendo di molto il traffico lungo le due corsie di precedente costruzione, ora in più punti di valenza panoramica, su e giù verso il passo del Cavallo, la Val Trompia e l'altro grande lago, l'Iseo. Nell'immediato dopoguerra i valsabbini si videro installare diverse acciaierie, che ovviamente necessitavano di apposite aeree industriali dando inizio a una distruzione del paesaggio che ha subito una impennata negli ultimi anni. Le acciaierie danno ancora lavoro a moltissimi abitanti di questa vallata, ma è in queste realtà minute che la penetrazione degli immigrati si fa sentire e scombussola i delicati equilibri società/lavoro. Qui i temi tanto cari alla retorica leghista sorgono in maniera spontanea e il partito del Nord non deve far altro che annaffiarli giornalmente con sempre, più radicali, promesse. I fatti di Adro, qualche vallata più in là, hanno anche qui fortissimi echi, segno inevitabile che in ballo non vi è soltanto il rancio della mensa scolastica, ma un fatto di integrazione e mutuo rispetto che a giudicare dalla situazione sembra arriverà solo tra troppo tempo.


All'ingresso di Lumezzane si continua a salire e al suo termine si sono già lasciati diversi tornanti dietro le spalle. La discesa appare alquanto sconnessa, ma certamente piacevole, così come il progressivo spettacolo che si va aprendo appena sotto di noi: il lago d'Iseo. Nella sua città più rappresentativa, Iseo appunto, il 25 Aprile è festeggiato con tutti gli accorgimenti del caso, omaggiando la memoria della Resistenza, così faticosamente sperata, ma anche il doveroso mito risorgimentale, ricordando che già nel 1859 la città si era coraggiosamente dichiarata "Comune d'Italia". I festeggiamenti infine non possono trascurare il bel monumento a Garibaldi (datato 1883), eroe dei due mondi, che fiero guarda il lago, imperituro simbolo delle bellezze di questa Nazione. Così gratuitamente denigrate da insigni "patrioti"...

mercoledì 21 aprile 2010

Giù la testa, coglione!

Silenzio. La rivoluzione non è un pranzo di gala schermo nero non è una festa letteraria nero non è un disegno o un ricamo nero non si può fare con tanta eleganza, con tanta serenità e delicatezza, con tanta grazia e cortesia. Forte pausa. La rivoluzione è un atto di violenza.
Mao Tse Tung

Del Giù la testa (1972) di Sergio Leone ci si domanda sempre e costantemente se è uno spaghetti western "classico" (se si può usare tale termine visto che fino a dieci anni prima il mondoancora non conosceva il western made in Cinecittà), fino a quel punto in cui si dichiara impossibile sciogliere il dubbio e si segue soltanto la cupa sceneggiatura del film.
Leone sposta lo scenario dalle pianure americane al deserto messicano: l'anno è il 1916, è in atto una rivoluzione capeggiata da due miti come Pancho Villa e Zapata. Non siamo più di fronte a personalità statuarie, individualistiche, come nei precedenti film di Leone, ma uomini che si relazionano continuamente con i tragici fatti che squarciano a metà (come in ogni guerra civile) il paese centramericano.
Juan (Rod Steiger) ha figli, molti, vive di brigantaggio, abile con la pistola, debole d'intelletto, pare una versione ispanica del brutto de "Il buono, il brutto e il cattivo" e difatti Morricone ne sottolinea le gesta con una forte ironia, anche se tale incoscienza sarà determinante e la rivoluzione ne farà un eroe assoluto. John (James Coburn) è irlandese, conosce da vicino la rivoluzione nel suo paese e la vita in stato di clandestinità, ma non ha mai smesso di sperare nella liberazione degli oppressi: un garibaldi dal crin fulvo, armeggia con dinamite e nitroglicerina in bottiglia, sfreccia lungo le polverose vie del West a bordo di una motocicletta.
I volti dei pistoleros sono volti rozzi, segnati, provati, sono la dannata esemplificazione di come, in quegli anni, il mito della frontiera e del Lontano Ovest stiano per decadere aprendo le porte, anche qui, alla modernità: il treno, così ricorrente come mezzo di locomozione nel film, spezza in due il paese e apre le porte a un furioso progresso, dirompente e fragoroso. Per Leone il cozzo tra i due mondi porta necessariamente alla morte, nessuna contaminazione è possibile. Non resta che aggrapparsi a quanto c'è di più caro e sperare di entrare nell'era moderna dalla porta della giustizia e del trionfo delle classi povere. Il regista romano salta con i suoi personaggi, cullati e adorati a lungo, salta verso l'incognita dell'avvenire: artisticamente ciò si concretizzerà nella lunga maturazione del suo titolo più identificativo, C'era una volta in America.
Juan dice a proposito di rivoluzioni: "Io so benissimo cosa sono e come cominciano: c'è qualcuno che sa leggere i libri che va da quelli che non sanno leggere i libri che sono i poveracci e gli dice 'oh, è venuto il momento di cambiare tutto'. [...] E poi i più furbi di quelli che leggono i libri si siedono dietro un tavolo e parlano, parlano e mangiano, parlano e mangiano; e intanto che fine ha fatto la povera gente? Tutti morti!". Parole del 1972: cosa vuol dire parlare di rivoluzione (comunista of course) nell'Italia post-68? Leone lo fa senza retorica, preoccupandosi dei possibili giovamenti che la povera gente può ottenere e non si perde in utopistiche costruzioni istituzionali. Ma non c'è bellezza nella rivoluzione, non c'è ordine, non c'è amore, c'è solo odio, contrapposizione dettata da futili ideologia, odio di classe. C'è una lotta infinita, senza nè vinti nè vincitori. Chi ne fa le spese? Ecco, la povera gente. Chi ne trae giovamento? I furbi, i doppiogiochisti, i voltagabbana.

lunedì 19 aprile 2010

Quello che i vulcani non dicono

E' in momenti come questi che ti rivolgi alla scienza e da loro pretendi spiegazioni. Ma già lo scorso Venerdì gli ingegneri del circondario apparentemente non sapevano rispondere all'annosa questione. Diamine, com'è che un vulcano in Islanda, in Islanda, possa paralizzare l'intera Europa? Dove è la scienza quando serve: possibile che i matematicus purus non riescano ad arginare un'eruzione vulcanica? In Islanda, in quella terra dimenticata da tutti, dai loro abitanti, dai folletti emigrati su barconi di fortuna e in semi clandestinità alla volta della più rigogliosa Groenlandia. Ecco...
Il Vesuv...ehr, l'Etna erutta ogni fottuto giorno, ma non ha mai rotto il cazzo a nessuno, anzi, ecce homo, è un validissimo sussidio ai braccianti meridionali, che possono permettersi anche il lusso di attendere che un cumulo di sassi fertilizzi i loro campi.
Cioè la Svezia ha chiuso per 48 h il suo spazio aereo, del tipo che se un piccione viaggiatore avesse solo e soltanto maturato l'idea di nidificare su una delle trecentomila isolette nel Mar Baltico avrebbe ricevuto di certo un colpo di cannone, uno di quelli avanzati dall'unico momento storico significativo di questo paese, la Guerra dei Trent'Anni. E poi dai, un paese che trascorre 364 giorni l'anno a discutere su chi sia il più meritevole scienziato dell'anno. Se non è perdita di tempo...
Questa è una feroce dichiarazione verso questi scienziati che stanno a cincischiare nei sotterranei di Ginevra aspettando lo scontro di due particelle, che certamente non esistono. Pensate bene a come rimediare a questo disastro da voi provocato, che ora rischia di ripercuotersi sull'Autore. Proprio nel pomeriggio ha ricevuto questa mail da un rivenditore di Ebay: "I would really appreciate it if you would allow more time for it to arrive due to the current situation with airport closures because of the Icelandic volcano eruption. Thank you!".
15 giorni di tempo per rimettere in sesto il servizio postale di sua Maestà britannica. Non uno di più.
Ipotetico condono a chi riesce a pronunciare il nome del mostro di lava, tal Eyjafjollajokull, senza mordersi la lingua biforcuta...


Lo sa, caro signor Eyjafjollajokull, cosa è in via di combinare?

domenica 18 aprile 2010

Libertà sessuale: a chi?

Una delle maggiori conquiste del secolo scorso è stata certamente, fuor di dubbio, il raggiungimento della parità sessuale. Un traguardo, specialmente in Italia, sognato per tutta la prima metà del secolo, quando in Francia e in Inghilterra le donne già erano chiamate al voto. Questo in Italia no: per la Chiesa e per il Fascismo la donna era e doveva essere un'umile serva della patria, chiusa in casa a sfornar bambini per la glorificazione della razza italica.
L'aborto e il divorzio sono arrivati piuttosto in là, anche se le due cose oggigiorno sono sedimentate dalla popolazione e forse strabusate. Nessuna quindi si ricorda più di quella generazione che combatteva il maschilismo e la repressività di una società troppo bigotta e perbenista, "la generazione - scrive in un lungo articolo sul Corriere della Sera la scrittrice Susanna Tamaro - che nei tè pomeridiani, tra un effluvio di patchouli e una canna, imparava il metodo Karman, cioè come procurarsi un aborto domestico con la complicità di un gruppo di amiche. Quella generazione che organizzava dei voli collettivi a Londra per accompagnare ad abortire donne in uno stato così avanzato di gravidanza da sfiorare il parto prematuro".
Quell'avanguardia del femminismo dove sta ora? Ha dichiarato conclusa la guerra, se ne sta nelle tante cittadine della penisola a incitare la figlia (o addirittura la nipote) all'aborto, al sesso sicuro, alla contraccezione? E la società cosa insegna a chi si affaccia per la prima volta sul mondo del liberalismo sessuale?
"Ho l’impressione - prosegue la scrittrice - che anche adesso il discorso sulla vita sia rimasto confinato tra due barriere ideologiche contrapposte", la Chiesa da un lato a promuovere con forza ed efficacia una difesa a oltranza della vita, i progressisti a negarla con fermezza, come un ferrovecchio che quando non funziona più, quando sfida le tecniche evoluzionistiche darwiniane, va abbandonato, buttato.
A questi adolescenti, questi nati negli anni '90, "qualcuno ha spiegato loro che cos’è la vita, il rispetto per il loro corpo? Qualcuno ha mai detto loro che si può anche dire di no, che la felicità non passa necessariamente attraverso tutti i rapporti sessuali possibili?". Una promiscuità sessuale, ormai accettata con lassismo, porta necessariamente a una libertà senza confini, richiama la contraccezione come un gioco, roba da un sì o da un no: se va male pazienza, la creatura la cestiniamo.
E allora la domanda cambia, "sono più felici, mi chiedo, sono più libere le ragazze di adesso rispetto a quarant’anni fa? Non mi pare. Le grandi battaglie per la liberazione femminile sembrano purtroppo aver portato le donne ad essere soltanto oggetti in modo diverso". Non già reprimendo il loro corpo, la propria sessualità, ma esaltandola, curando la propria immagine, il proprio look, il proprio apparire. Vediamo con una certa frequenza bambine truccate come prostitute, al cellulare con le amiche o forse con il fidanzatino, che ti guardano perse, superiori, pronte a tutto: e poi arriva la maggiore età, laddove "pare che molte ragazze, per i loro diciotto anni, chiedano dei ritocchi estetici in regalo. Un seno un po’ più voluminoso, un naso meno prominente, labbra più sensuali, orecchie meno a vela".
"Siamo passati così - conclude la Tamaro - dalla falsa immagine della donna come angelo del focolare, che si realizza soltanto nella maternità, alla mistica della promiscuità, che spinge le ragazze a credere che la seduzione e l’offerta del proprio corpo siano l’unica via per la realizzazione. Più fai sesso, più sei in gamba, più sei ammirata dal gruppo". Così non va, mie care, così si perde il contatto con le conquiste precedenti, così si banalizzano i preziosi risultati agguantati, così si routinizza uno status strappato con i denti e con le unghie. Sporche e insanguinate, non di smalto appena fresco.

mercoledì 14 aprile 2010

Ematiche dissipazioni

C'è qualcosa di inquietante nel veder fuoriuscire del liquido ematico dalle narici, nel vederlo scorrere appena sotto il setto nasale e ammirarlo mentre incontra l'ostacolo del labbro superiore, scivola lungo la bocca e si schianta al suolo.
E c'è qualcosa di perverso nel far amicizia con questo increscioso avvenimento fisiologico, noto ai matematicus purus come epistassi, diffuso nel sentir comune come sangue dal naso. E tu lo conosci fin troppo bene, con esso hai assoluta familiarità: gli ultimi vent'anni sono stati scanditi da occasionali fuoriuscite, a distanza di tre mesi l'una dall'altra, con visibili eccezioni e intensificazioni a ridosso della bella stagione. E se nell'infanzia a tenere il conto delle emissioni era la lavanderia ben contenta di ripulire dal liquido rosso le lenzuola dell'orso Yogi, nell'avvicinarsi alla maggior età il fatto si è presentato all'ultimo piano del Liceo Scientifico Tosi proprio mentre il sostituto del dott. Bisanzio invocava il tuo nome (pura coincidenza?) e tu lo salutavi con un ormai leggendario "puttana" (al setto nasale ovviamente, non altri), oppure agli albori di una scampagnata tra le montagne valdostane o presso Monza preannunciando i furiosi combattimenti di qualche ora più tardi. Ricordi che in quest'ultima occasione indossavi una lucente armatura e cavalcavi un cavallo bianco; il resto è stato ahimè rimosso.
Ma quando l'accadimento non subentra in trasferte extra-casalinghe, il fatto rientra nella pura normalità: la prima goccia scende ed intercetta il palmo destro che la raccoglie prontamente, stesso destino le successive. A ciò segue una doverosa imprecazione/maledizione, nonchè una tranquilla camminata al bagno più vicino (magari quello più appartato al piano di sotto, onde non sporcare il lavabo appena lucidato). Una lavata di faccia veloce, una perdita di pazienza per l'epistassi che non s'arresta in tempi brevi, una estirpazione del male e una generale ripulita.
Schema ultracollaudato, inossidabile, infallibile: come rievocato stamattina quando nel pieno dello studio si è presentato il liquido amico e tu lo hai condotto al vicino luogo di espulsione raccontandogli nel frattempo di come secondo la teoria della subcultura di Shaw e McKay non è l'individuo a deviare, ma bensì il gruppo di cui l'individuo è membro.
Già proprio così...

mercoledì 7 aprile 2010

L'allenatore di ottenni

Il finocchietto non c'è. Ma gli altri ci sono tutti: il grasso sbafamerendine e tonto, il secchione quattrocchi e impacciato, i gemelli vestiti uguali (ah, son gemelli? Si in effetti mi sembravano un pò troppo simili), il ricciolino esuberante, lo straniero o presunto tale (in questo caso emulo di Putin, solo giusto più biondo).
Ci son tutte le categorie tipiche della commedia a stelle e strisce: quella del papà grassotto (modello John Goodman nell'Asilo dei Papà) che allena quattro sfigatelli, di cui uno è sempre suo figlio ottenne, a baseball/football/basket e gli fa vincere il campionato megagalattico. Diventando al conbtempo il padre più migliore del mondo: achievement unlocked!
Solo che qui siamo nel cuore delle Prealpi italiche, il babbo è sostituito da un aitante giovinotto con gli occhiali e il fischietto: ma la squadra fa certamente acqua. Sono indisciplinati. Ma sono ottenni, settenni: che volere?
Che imparino a non farsi la guerra per decidere chi fa la contesa, che non trasformino ogni singola azione in una mischia rugbystica, che non si sbraccino per tirare un misero tiro libero ecc...
Fortunatamente nessun campionato da vincere, solo tanta voglia di divertirsi e svagarsi da ambo le parti, nella speranza che ogni allenamento non conduca tre bambinetti a fracassarsi il dito...

Rockstar non gioca più con le vecchiette...

Fa paura. Fa dannatamente paura. Il modello editoriale americano si è ora espanso anche alla succursale (videoludicamente parlando, vedi Kotaku) australiana.
Due anni fa il caso di Jeff Gerstmann e del suo licenziamento da Gamespot causa-rimostranze-da-Eidos circa la recensione negativa di Kane & Lynch (è una chiavica di gioco, che dire altro?) aveva fatto il giro del pianeta, coinvolgendo anche la stampa (videoludica, s'intende) europea: l'idea che i publisher avessero così tanto potere all'interno delle redazioni statunitensi, anche di quelle più importanti, da costringere al licenziamento uno dei giornalisti più in vista della testata, faceva rabbrividire chiunque, in particolare coloro che investono tempo e denaro per portare avanti un progetto editoriale legato ai videogiochi.
Oggi spunta il caso Toby McCasker, che curava la pagina videoludica di Zoo Weekly. E' il portale news.au a seguire da vicino la faccenda: tutto ha inizio quando giorni addietro aveva pubblicato un'articolo, un'anteprima, a seguito della prova su strada dell'atteso Red Dead Redemption di Rockstar Games. Non deve essere stato uno scritto particolarmente lusinghiero, tant'è che il PR della casa di GTA invitò i direttori della testata a rivedere il pezzo pubblicato: "E' il titolo più grandioso che abbiamo prodotto dopo GTA IV - recita la mail recapitata a zoo weekly - e già sta ricevendo nomination come gioco dell'anno da molti specialisti da tutto il mondo. Puo verificare che l'articolo di Toby rifletta questo - dovrebbe rispettare meglio le aspettative di cui scrive".
Ora: il problema non risiede tanto nel fatto che un produttore faccia pressioni su un redattore. E' cosa non eticamente cristallina, ma rientra di certo nelle cose accettate. Dopotutto stampa e industria videoludica hanno bisogno l'uno dell'altro per sopravvivere: l'uno invia le notizie, l'altro le pubblica. Così, banalmente...
McCasker ha sbagliato nel momento in cui ha pubblicato quella mail sul proprio profilo Facebook, scatenando l'ira e l'odio di Rockstar. Così ha commentato il povero Toby: "Non mi sono iscritto come giornalista per scrivere pubblicità mascherata da editoria. Questa cultura del ‘cash for comment' sta velocemente diventando lo status quo nell'editoria, e mi da tremendamente fastidio". Eccolo il modello americano: trattare i giornalisti come (scomodi) pubblicitari. Le cose non vanno di certo così, o meglio non devono andare così: il produtore invita la stampa a provare un prodotto, gli fornisce un'area rilassata, delle sorridenti signorine, qualche frizzante stuzzichino, una manciata di gadget. E qui finisce, questo è il limite: l'ammaliato giornalista, contento comunque per il lusinghiero trattamento ricevuto, si siede di fronte al computer e batte le sue impressioni e sensazioni. Ma a questo punto si riterrebbe che il produttore in questione prenda atto e non si lamenti di quanto fuoriesce dagli infuocati polpastrelli.
Oltretutto, dai, Rockstar, per una misera anteprima!!

sabato 3 aprile 2010

Il cieco e il pediatra

Era una sfida che non si ripeteva da ben sei anni, che da queste parti sono lunghi. Ma a quelle latitudini lo sono ancora di più. In sei anni porti a termine il ciclo di studi superiori (no, scusa, non tu Renzo...). In sei anni la juventus può vincere sei Europa League.
Nell'inverno 2004 Metal Gear Solid 3 Snake Eater approdava finalmente su Playstation 2, dando sfogo agli istinti bestiali di un Kojima sempre più osannato, ma anche sempre più criticato. Contestualmente, somewhere in Canada, Ubisoft gettava nella mischia l'atteso seguito di Splinter Cell, quel Pandora Tomorrow che proiettò la serie verso l'infinito, e oltre solo poi con Chaos Theory.
Per quanto i due prodotti alla fin della fiera erano assai diversi, la stampa bramante di lotte gladiatorie li accostò sovente chiedendo con insistenza quale considerazioni gli uni avessero dell'avversario: per Kojima SC usava troppi tasti, per i ragazzi di Ubi Metal Gear era troppo borioso nella narrazione.
Eppure, a onor del vero, ci piaceva questo scambio di colpi, sempre serrato, che per certi versi scandiva il ritmo di una generazione di console che più o meno aveva già detto tutto (non dimentichiamoci che il 2005, con Xbox 360, i 128 bit cessano di trainare l'evoluzione del videogame: eppure ce li troviamo ancora pei coglioni anche cinque anni più tardi. Ah no, chiedo scusa, il Wii è un 64 bit...).
Poi le due serie presero differenti direzioni: quella nipponica si divertì per qualche annetto con graphic novel e puzzle game, quella americana portò a termine il compito con Double Agent (2006) prima di rifare trecentoquarantatre volte Convinction (che forse tra un paio di settimane esce sugli scaffali. Ma non ci giurerei...). Del 2008 è Guns of Patriot, troppo lontano e troppo eterogeneo per ingaggiare lo scontro.
Ma è questo Aprile che, sicuramente, le due serie torneranno ad incrociare gli sguardi: il 16 (lo ripetiamo, forse...) esce Splinter Cell Convinction, il 28 (in Giappone, a Giugno negli altri mercati) apparirà su PSP Metal Gear Solid Peace Walker. Entrambi i progetti sono realmente diversi, e non ci sono contaminazioni di sorta, ma condividono il fatto di uscire dal seminato rispetto ai capitoli passati: Sam Fisher esce per fare quattro passi alla luce del sole, Solid Snake si esibisce al meglio su una console portatile (dopo i pasticci dei Portable Ops e il misterioso Touch) miscelando la giungla del terzo capitolo (come assaggiato nella demo del Tokyo Game Show) alle architetture dei primi due capitoli (come si vede nell'ultimo trailer distribuito).
La curiosità di padroneggiare entrambi i titoli è davvero molta, così come quella di accostarli (la stampa specializzata freme: questo è certo): se le premesse saranno concretizzate nel prodotto finale, si potrà adunque dire di non aver aspettato sei lunghi anni invano nell'ombra...