martedì 31 agosto 2010

Uomini e no(i)

E' forse nel cane la natura dell'uomo? Di quel cane che guaisce, che si rintana sotto il letto, di quel cane che fugge allo sguardo del padrone. "Blut, il cane, sa che non può più seguire Figlio-di-Dio dopo quello che ha fatto. [...] Io vorrei vedere gli altri: lo stesso Hitler, nelle circostanze stesse, con un Figlio-di-Dio per lui, e lui che si rendesse conto di quello che fa, e guaisse, corresse sotto un letto a gemere".
Non già nell'uomo è la natura dell'uomo. Il paradosso che Vittorini coglie al meglio nel suo romanzo di militanza. Comunista nella copertina (l'autore militerà nel PCI e dirigerà per diversi anni L'Unità. La morte lo coglierà nel 1966), umano, umanissimo, nella documentazione cronachistica di una minuziosa Milano post-25 Luglio 1943. Mussolini già lontano, forse a Salò, i tedeschi insediati in Via Santa Margherita a caccia dei Gruppi d'Azione Patriottica.
L'atmosfera è tesa, troppo surreale, vorrebbe sprizzare di quotidianità cullata da un inverno mite, il "più mite che abbiamo avuto da un quarto di secolo", ma non ci riesce. Proprio non ce la fa: "il coprifuoco era sulla città - scrive Vittorini - un immenso ragno, con zampe sottili dentro al chiarore della Luna".
E più avanti la cupa esistenza cittadina si trasforma in una insistita intervista con sè stesso, domande domande e domande. Senza risposte: "conosco il deserto in cui egli è ora, non l'amore, ma la sua sabbia nera".
No, non può essere nell'uomo la natura dell'uomo. La Resistenza con la R maiuscola diventa così resistenza con la r minuscola. Se Uomini e no è il romanzo della Resistenza per antonomasia (difficile trovare qualsiasi scritto su quegli anni così coinvolto nei fatti e così meditabondo sulla vicenda assaporata), lo è perchè fa dell'eccezionalità storica una condizione metafisica del genere umano. Non una isolata lotta al nazifascismo, ma l'infinita liberazione dell'uomo dal morbo di sè stesso.
Uno scontro che porta all'(auto)annullamento, all'annichilimento dell'estro metafisico. Combattere vuol dire perdersi. Perdersi la vita, le belle donne, le piacevoli letture, il lavoro, perdersi il Naviglio Grande al tramonto, perdersi il tramvai che va a Piazza Fontana e torna indietro, perdersi un bicchiere di vino, perdersi in un goccio d'acqua. Non già sopravvivere: già, sopravvivere a cosa? A sè stessi? Agli altri? Alla propria ombra?
No, è "molto semplice", se combatti vuol dire che vuoi perdere. Allora, "perchè lottare? Per resistere. Come se mai la perdizione ch'era sugli uomini potesse finire, e mai potesse venire una liberazione".
No, no e ancora no. Impossibile liberarsi dall'uomo. Dall'uomo che mai capisce, mai si applica, mai prende seriamente d'impegno di liberarsi da/di sè stesso. L'uomo dovrebbe abbandonare la natura dell'uomo.
Vittorini scrive in una nota finale che "la mia appartenenza al Partito Comunista [consideriamolo pure come quel partito d'ala massimalista d'ispirazione sovietico-gramsciana. Non già quello di stampo togliattiano] indica dunque quello che io voglio essere, mentre il mio libro può indicare soltanto quello che in effetti io sono".
E questa volontà prescrittiva, questo ridursi a voler essere "solo" un buon militante, può aiutare il lettore e i suoi arrovellamenti sulle righe finali del libro.
Anche se invero è tutto inutile. L'uomo non potrà mai ambire alla natura dell'uomo.
"Chi aveva colpito non poteva colpire di più nel segno. In una bambina e in un vecchio, in due ragazzi di quindici anni, in una donna, in un'altra donna: questo era il modo migliore di colpire l'uomo. Colpirlo dove era più debole, dove aveva l'infanzia, dove aveva la vecchiaia, dove aveva la sua costola staccata e il cuore scoperto: dov'era più uomo".

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