mercoledì 21 aprile 2010

Giù la testa, coglione!

Silenzio. La rivoluzione non è un pranzo di gala schermo nero non è una festa letteraria nero non è un disegno o un ricamo nero non si può fare con tanta eleganza, con tanta serenità e delicatezza, con tanta grazia e cortesia. Forte pausa. La rivoluzione è un atto di violenza.
Mao Tse Tung

Del Giù la testa (1972) di Sergio Leone ci si domanda sempre e costantemente se è uno spaghetti western "classico" (se si può usare tale termine visto che fino a dieci anni prima il mondoancora non conosceva il western made in Cinecittà), fino a quel punto in cui si dichiara impossibile sciogliere il dubbio e si segue soltanto la cupa sceneggiatura del film.
Leone sposta lo scenario dalle pianure americane al deserto messicano: l'anno è il 1916, è in atto una rivoluzione capeggiata da due miti come Pancho Villa e Zapata. Non siamo più di fronte a personalità statuarie, individualistiche, come nei precedenti film di Leone, ma uomini che si relazionano continuamente con i tragici fatti che squarciano a metà (come in ogni guerra civile) il paese centramericano.
Juan (Rod Steiger) ha figli, molti, vive di brigantaggio, abile con la pistola, debole d'intelletto, pare una versione ispanica del brutto de "Il buono, il brutto e il cattivo" e difatti Morricone ne sottolinea le gesta con una forte ironia, anche se tale incoscienza sarà determinante e la rivoluzione ne farà un eroe assoluto. John (James Coburn) è irlandese, conosce da vicino la rivoluzione nel suo paese e la vita in stato di clandestinità, ma non ha mai smesso di sperare nella liberazione degli oppressi: un garibaldi dal crin fulvo, armeggia con dinamite e nitroglicerina in bottiglia, sfreccia lungo le polverose vie del West a bordo di una motocicletta.
I volti dei pistoleros sono volti rozzi, segnati, provati, sono la dannata esemplificazione di come, in quegli anni, il mito della frontiera e del Lontano Ovest stiano per decadere aprendo le porte, anche qui, alla modernità: il treno, così ricorrente come mezzo di locomozione nel film, spezza in due il paese e apre le porte a un furioso progresso, dirompente e fragoroso. Per Leone il cozzo tra i due mondi porta necessariamente alla morte, nessuna contaminazione è possibile. Non resta che aggrapparsi a quanto c'è di più caro e sperare di entrare nell'era moderna dalla porta della giustizia e del trionfo delle classi povere. Il regista romano salta con i suoi personaggi, cullati e adorati a lungo, salta verso l'incognita dell'avvenire: artisticamente ciò si concretizzerà nella lunga maturazione del suo titolo più identificativo, C'era una volta in America.
Juan dice a proposito di rivoluzioni: "Io so benissimo cosa sono e come cominciano: c'è qualcuno che sa leggere i libri che va da quelli che non sanno leggere i libri che sono i poveracci e gli dice 'oh, è venuto il momento di cambiare tutto'. [...] E poi i più furbi di quelli che leggono i libri si siedono dietro un tavolo e parlano, parlano e mangiano, parlano e mangiano; e intanto che fine ha fatto la povera gente? Tutti morti!". Parole del 1972: cosa vuol dire parlare di rivoluzione (comunista of course) nell'Italia post-68? Leone lo fa senza retorica, preoccupandosi dei possibili giovamenti che la povera gente può ottenere e non si perde in utopistiche costruzioni istituzionali. Ma non c'è bellezza nella rivoluzione, non c'è ordine, non c'è amore, c'è solo odio, contrapposizione dettata da futili ideologia, odio di classe. C'è una lotta infinita, senza nè vinti nè vincitori. Chi ne fa le spese? Ecco, la povera gente. Chi ne trae giovamento? I furbi, i doppiogiochisti, i voltagabbana.

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