mercoledì 20 gennaio 2010

James Cameron's Avatar: è il sogno che incontra la realtà o viceversa?

Quando lasci Pandora per fare ritorno sul tuo "pianeta morente" hai capito veramente tutto. Ed è in quel momento che puoi finalmente aprire gli occhi. Ritorni alla vita e sei conscio del fatto che Avatar di James Cameron è un'opera che oltre a far man bassa di premi, ha posto un punto di svolta all'interno della cinematografia. Mondiale.
Avatar è la migliore dimostrazione che con investimenti sulla tecnologia si possono far progredire le idee. E raccontare una storia che parla di tutti noi. Alieni in casa nostra.
La trama la si conosce: Cameron insiste su questo marines (che si è fatto le ossa nel Venezuela) costretto su una sedia a rotelle ritrova il proprio spirito combattivo e la propria vitalità quando calato all'interno del suo avatar, il corpo di un Navi, i "selvaggi" che popolano il pianeta di Pandora. Interpetrato da Sam Worthington (Terminator Salvation), è un giovanotto un poco spocchioso, indisciplinato, sarà gli occhi dello spettatore nell'esplorazione dell'incontaminato Pandora, il suo sguardo fanciullesco e puerile aiuterà la sensazione di meraviglia nel dispiegarsi della flora e della fauna del pianeta, il quale è un "tutto vivente" in uno slancio validamente panteista. Il paragone viene avanzato rispetto al sistema di interconnessioni della rete informatica, ma è una sensazione semplicistica e pregiudiziale, come Cameron ben sa: ogni essere vivente si nutre e restituisce la propria energia in uno scambio continuo, infinito e involontario tra il pianeta e i corpi viventi. L'equilibrio è garantito da un albero sacro, divinità immanente, sempre pronta ad elargire segni alla popolazione: un concetto religioso primitivo finchè si vuole, ma esteticamente inoppugnabile. Pandora è un mondo vibrante, vivo, ricolmo di colori, di suoni, di musiche, è un sistema in stabile equilibrio garantito da alcuni alberi secolari. Dispiace quindi che alcuni recensori (Osservatore Romano, quotidiano della Santa Sede) non abbiano valutato le conseguenze filmiche e artistiche di una simile scelta, limitandosi al solo raggio interpretativo cristiano-cattolico: "La natura non è più la creazione da difendere, ma la divinità da adorare - vi ha scritto Gaetano Vallini - mentre la trascendenza si svuota materializzandosi in una pianta e nelle sue bianche liane che nutre gli spiriti diramandosi nella forma di un vero e proprio panteismo".
Sull'intero significato del film, però, spende ancora meno parole, nel tentativo di sbrigare quanto prima la faccenda: "la tecnologia non riesce a tradursi in emozione, e la storia si perde in un polpettone sentimentale", riducendo il tutto ad "una parabola antimperialista e antimilitarista facile facile, appena abbozzata". La critica ad una forma di neoimperialismo e war economy è presente, palpabile, viva (l'affermazione più sarcastica è quella pronunciata dal Colonello Miles Quaritch, "combatteremo il terrore con il terrore" in un eco alla politica estera americana degli ultimi anni): le battaglie sono sì spettacolari, si susseguono frequenti e frenetiche, gli effetti speciali avviluppano lo spettatore, si dipanano nella loro eleganza, ma fortunatamente manca (con una certa eccezione nelle fasi finali) quel senso drammatico, patetico che domina con eccessiva frequenza i "polpettoni" bellici hollywoodiani. La vicinanza è con Apocalypse Now di Coppola, specialmente per via del fatto che i marines combattono con mitra e bombe, mentre gli indigeni con archi e frecce: una lotta impari, improbabile e tale rimane sulla carta.
E non è vero che Avatar non emoziona: la storia d'amore che è uno dei fili conduttori dell'intera pellicola incanta e affascina per le sue tinte platoniche. Le due anime si incontrano nella condivisione reciproca e con l'ambiente circostante, il quale infine sancirà ufficialmente la loro unione. E' un gioco di sguardi, di sensi, di odori e sapori: una sensualità accesa eppure sopita, che si rivela un motore supplementare nella visita di Pandora.
Il protagonista del film è il pianeta, pochi cazzi: la tecnologia che lo dipinge è di prim'ordine, avanguardia stilistica e tecnica, emoziona, coinvolge, spinge a un percorso individuale e d'apprendimento. In tal senso Avatar è un'esperienza iconografica, una, spregevolmente parlando, immensa tech demo: insomma, Cameron ha fatto bene ad attendere la tecnologia necessaria per impiantare i propri bozzetti e pensieri su celluloide. La grafica, la tecnica, la costruzione informatica è il pilastro centrale di tale kolossal, ma è l'uso che se ne fa a lasciare sbalorditi, il continuo corrersi e rincorrersi di remoti angoli di foresta, dettagliati e intimistici, con ampie vedute, sconfinate e globali. Non un male, come invece si è espresso Andrea Bedeschi dalle pagine di Everyeye: "Se in tutti suoi lavori Cameron ha sempre subordinato la tecnica e la tecnologia a disposizione, mettendoli al servizio della narrazione e di un messaggio che poneva sempre l'uomo al centro del tutto, dispiace constatare come in Avatar il processo si sia invertito: tutto pare un enorme benchmark delle possibilità del nuovo cinema".
E in tutto ciò la tecnologia 3D si rivela utile, quasi indispensabile come mai prima d'ora: l'intenzione del regista era di catturare il giocatore con immagini tridimensionali, non di farle esplodere oltre lo schermo. Beh, ci è riuscito: non era vero, come sostenuto caparbiamente dall'Autore, che tale tecnologia fosse poco più che un inutile orpello, non di certo lo strumento per una prossima progressione della settima arte. Il giudizio rimane più o meno il medesimo, ma a seguito della visione di Avatar (dell'esperienza su Pandora) il 3D non fa più così paura: è perfettamente integrato nella pellicola, diventa una cosa naturale, quasi da non farci più caso, una naturale estensione dello "spazio filmico" al cui centro vi è lo spettatore.
A dispetto del comparto tecnico, la colonna sonora (fissa nelle mani di James Horner, già autore delle musiche di Titanic) non brilla, assolve il compitino di commentare le vicende del film indecisa tra un impianto epico (ravvisabile nel main theme, giammai dispiegato in tutta la sua potenza) e uno etnico (per connotare musicalmente i Navi si sono scelte delle musiche ispirate dalla cultura africana).
Ottime le performance attoriali, perfettamente a loro agio in un perenne contesto di girato in motion capture (nessuna ripresa in campo aperto, l'intero film è stato girato in studio): una Sigourney Weaver che rinasce in un ruolo cucito su misura (lontano comunque dalle ammalianti interpretazioni dei due Ghostbuster e, naturalmente, più vicino agli Aliens), una Zoe Saldana (Neytiri) che imposta la recitazione in una forma molto fisica e sensuale (la grazia è in lei, nessun efferato erotismo).
Tirando le somme Avatar è una scommessa vinta (la tecnologia non preclude un coinvolgimento emotivo e, udite udite, poetico), una effettiva svolta all'interno dell'arte cinematografica, "sull'integrazione di elementi reali - conclude Bedeschi - con altri frutto solo ed esclusivamente del cervello dei computer e dell'estro artistico di chi quei computer li adopera, ed è un overflow di fastosità che colpisce duro (in senso positivo) l'occhio dello spettatore".
Non è il futuro del cinema, o comunque non è il cinema che gradiresti vedere per tutti gli anni a venire, ma è un'opera che ti rapisce, ti sbatte qua e là, richiede il capitombolo di alcuni assunti personali formulati sull'evoluzione del cinema. Ma quando riapri gli occhi e Pandora non esiste più, nelle tue mani stringi un cumulo di bit, giochi con la mente: il sonno criogenico può continuare, almeno fintantochè qualcuno raccoglierà la sfida di Avatar, il guanto di sfida del "re del mondo".


Avatar è un videogioco.
Vario e copioso è l'immaginario interattivo che permea l'opera di James Cameron. Sul dilemma tecnologia/sceneggiatura se ne potrà parlare (molto volentieri) in altra sede. Al fianco di una meditazione sulla figura dell'Avatar, alter ego, sul sistema di linkaggio e interconnessione, si possono tendere notevoli rimandi a titoli importanti del panorama videoludico: Halo, Panzer Dragoon Orta (entrambi accomunati da una compenetrazione tra tecnologia e natura), con un pizzico di Mechassault.
Resta quindi inconcepibile afferrare come Ubisoft sia stata in grado di realizzare un tie-in dal film definito univocamente una "porcata". E dire che in precedenza con il King Kong di Jackson, affidato alle cure di Ancel (paparino di Rayman) si erano dimostrati perlomeno professionali.

2 commenti:

  1. 'Balla coi puffi' è una mia idea! [Cit. Cartman]

    A parte questo, la trama non è quella di Pocahontas?

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  2. Gentile anonimo nonchè unico lettore,
    il tuo menzionare la puntata tredici della tredicesima stagione di South Park (Dance with smurfs) ti mette immediatamente in una ottima posizione. Sicuramente hai amicizie tanto intelligenti da consentirti di approdare a tali capolavori dell'intrattenimento: ringraziali ogni giorno con una preghiera rivolta verso la sede tokionense della Sega, metti che le tue suppliche porteranno a Shenmue III.
    Avatar non è Pocahontas per il semplice motivo che l'avventura Disney non prevede esseri lunghi tre metri (e ho detto tutto) e si svolge nella ridente America del Nord, quando gli indiani non avevano nè copertura sanitaria e nemmeno un bazooka pro capite. E stavano pure benone...
    Visto, caro anonimo, quanto era fragile la tua osservazione? James Cameron è un uomo di testa, che fa funzionare l'intelletto. Noi utenti mortali di che vogliamo impicciarci, noi siamo semplici marines catapultati su Pandora, con maschera ma non mecha

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